“ Non potete aspettarvi  che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamento mentre stanno subendo perdite. E’ la comunità organizzata che deve trovare modalità intelligenti di spesa con lo scopo di dare il calcio di inizio al pallone [….]  Non riuscirete mai a far quadrare il bilancio pubblico con misure che riducono il reddito nazionale [….]  è il peso della disoccupazione e la caduta del reddito nazionale che stanno buttando all’aria il bilancio. Voi badate alla disoccupazione che il bilancio baderà a se stesso ! ”

(John Maynard Keynes – Conversazione  radiofonica del 4/1/1933 ) 

“All’epoca della grande crisi [….] i capitalisti hanno combattuto costantemente gli  esperimenti  volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi  tale posizione.  E’ chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide sui profitti in quanto non richiede la istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i capitani d’industria si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia “la ripresa artificiale” che lo Stato offre loro ? [….]  Il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi  forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene al passato.   Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi. “ 

( Michal  Kalecki – Aspetti politici del pieno impiego 1943 ).


A differenza di  Kalecki, Keynes  era convinto che il pieno impiego potesse essere conseguito e mantenuto costantemente nel quadro di un’economia capitalistica e,  benché poco incline ad occuparsi del lungo periodo, fantasticava di un mondo in cui pochissime ore di lavoro al giorno avrebbero assicurato a tutti un’esistenza libera e felice grazie alla crescita continua della produttività, un mondo pacifico perché la piena occupazione in tutti i paesi avrebbe eliminato le cause economiche della guerra;  la rendita sarebbe gradualmente scomparsa  ( “eutanasia del rentier” )  quindi il profitto si sarebbe ridotto a pura remunerazione del rischio e del lavoro di direzione.

In quanto al bilancio degli Stati,  il ritorno della prosperità  e il pieno impiego dei fattori della produzione avrebbero portato in avanzo o in pareggio la finanza pubblica compensando i deficit dei periodi di crisi e minimizzando il debito rispetto al reddito costantemente crescente.  I sacerdoti della “finanza sana”,  oscurati per anni dall’ombra  gigantesca di lord Keynes ,  hanno trovato nel debito crescente di tutti gli Stati un’arma che sembrava decisiva contro le politiche keynesiane al fondo delle quali si sarebbe trovata  l’ineluttabile catastrofe della insostenibilità del debito pubblico.  Se negli anni ’50 un economista avesse pronosticato che la  terza  potenza economica mondiale sarebbe convissuta per lustri con un debito pubblico che tende al triplo del  P.I.L.  avrebbe subito un trattamento sanitario obbligatorio.  Da parte marxista la crescente spesa pubblica trova spiegazioni convincenti  di ordine economico e politico che in ultima analisi si basano sulla teoria del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo,  ma già alla fine della guerra si leva una voce originale in difesa dell’intervento pubblico in economia : un allievo di Ragnar Frisch, il norvegese Trygve  Haavelmo formula il teorema del bilancio in pareggio. 

Torniamo per un attimo al deficit spending  di Keynes.
La sua efficacia è determinata da un moltiplicatore ricavato dalla propensione marginale al consumo della popolazione, più precisamente dal reciproco della propensione al risparmio.    Se ogni euro immesso in più nel mercato viene consumato per 8 decimi  ( e quindi risparmiato per due decimi ) avremo 1 : ( 1 – 0,8 ) =  1 : 0,2  quindi un moltiplicatore = 5. Perciò  un euro in più di deficit  dovrebbe produrre  5  euro di incremento  del reddito. Com’è noto  Keynes  raccomandava  il deficit perché una tassazione equivalente alla maggiore spesa (bilancio in pareggio ) ne  avrebbe annullato l’effetto moltiplicatore.  Haavelmo  dimostrò che la maggiore spesa,  benché compensata da un’eguale entrata tributaria,  produceva comunque un incremento del reddito nazionale  ma con un moltiplicatore pari ad 1.

L’aumento della spesa pubblica in pareggio, cioè l’innalzamento del livello del bilancio,  avrebbe avuto un’efficacia molto minore ma tagliava la testa al toro  del problema del debito. Naturalmente  in entrambi i casi  ( Keynes  e  Haavelmo )  l’espansione sarà reale se c’è,  e finchè c’è, capacità produttiva inutilizzata altrimenti  si avrà soltanto espansione monetaria cioè un processo inflattivo (teniamo presente comunque che un aumento puramente nominale del reddito riduce pro tanto  il debito reale).  


Un’altra condizione per il pieno effetto del deficit spending è che la politica monetaria accompagni la politica fiscale con un’adeguata offerta di moneta ad evitare la crescita dei tassi di interesse che deprimerebbe gli investimenti privati.    Nelle economie sviluppate  il sottoutilizzo della capacità produttiva  è divenuto  la norma, persino nei punti alti del ciclo non ci si avvicina al pieno impiego dei fattori produttivi, e,  per quanto riguarda la moneta,  il sistema aureo appartiene a un passato remoto,  viviamo nella fase dell’imperialismo contraddistinta dalla “ moneta manovrata “ quindi ogni  Stato , purchè  dotato di  sovranità monetaria,  può  determinare l’offerta di moneta e quindi la struttura  dei tassi di interesse.     

Tra i meriti del teorema di  Haavelmo dobbiamo includere la sua capacità di misurare anche la sapienza dei sostenitori  della riduzione simultanea  della spesa  pubblica e delle entrate  tributarie,  della  “ austerità espansiva “ e  consimili amenità,  perché l’effetto sicuro della riduzione del livello del bilancio dello Stato  è precisamente l’opposto dell’effetto Haavelmo  e non è un caso che in tutti i paesi capitalistici, in misura maggiore o minore,  sia avvenuta,  nel corso dell’ultimo secolo, una enorme dilatazione dei  bilanci pubblici e generalmente, in misura minore, anche dei debiti pubblici.   C’è però una prima complicazione :  la propensione al consumo non è una grandezza fissa neppure nel breve periodo.   Essa varia al variare del reddito,  al crescere della ricchezza si  riduce mentre i redditi bassi devono essere consumati  interamente.  La distribuzione del reddito  influisce quindi  sul moltiplicatore  e  gli incrementi   di spesa  e di tassazione possono influire  sulla distribuzione del reddito.

Se affido la salvezza di Venezia  o un foro delle Alpi occidentali a delle bande di ladri,  del pacco di miliardi  spesi  una porzione esigua  finirà nelle tasche  degli operai  ( pochi ) che spendono l’intero salario per vivere  mentre una parte cospicua finirà nelle tasche  di malviventi milionari impossibilitati a spendere  per intero  il loro reddito;  un’altra parte  sarà impiegata per l’acquisto di costosissimo  macchinario d’importazione ( e qui si affaccia una seconda complicazione : il vincolo estero ).   Inoltre questo tipo di investimenti, tecnicamente e ambientalmente  demenziali ,  predetermina  futuri costosi  e continui interventi di manutenzione  come avviene per l’autostrada calabrese presa in ostaggio dalla ndrangheta. Il risultato netto sarà  un peggioramento  della propensione media marginale al consumo quindi una riduzione del moltiplicatore.

Una considerazione analoga  vale per le entrate dello Stato:   l’imposizione indiretta è strutturalmente regressiva e in Italia  l’imposizione sui redditi  è di fatto regressiva  a causa dell’evasione,  l’imposizione sul patrimonio  è   irrilevante,   i contributi previdenziali  di categorie povere concorrono  al pagamento di pensioni  “ ricche “  etc.  La qualità, dunque, della spesa pubblica e del prelievo fiscale non è meno importante  delle quantità.  Anche  il trasferimento di ricchezza  dall’economia  “sana “ alla criminalità organizzata  procura  un peggioramento della distribuzione del reddito, un incremento dell’evasione  etc.                                                        

Un altro limite dell’efficacia della spesa in deficit può essere  costituito dalla modalità del suo finanziamento; essa si può finanziare stampando nuova moneta  (la modalità preferita da Keynes) e si avranno aumenti dei prezzi  che incoraggiano gli investimenti privati e riducono i salari reali  (ma non il monte salari grazie all’incremento dell’occupazione),  l’economista inglese era contrario alla riduzione dei salari nominali,  cioè a prendere di petto la classe operaia,  avendo  compreso  che essa avvia un processo a spirale di riduzione dei consumi – riduzione degli investimenti – riduzione dell’occupazione – riduzione dei consumi –  etc.   Un’altra modalità consiste nella vendita di titoli di Stato ma in questo caso i privati che li acquistano  impiegano non soltanto fondi destinati al risparmio  ( distratti comunque dal mercato dei capitali ) ma anche una parte del reddito destinato ai beni di consumo.   Abbiamo di conseguenza  un disturbo del finanziamento di attività private  ( acquisto di azioni ed obbligazioni ) ed una menomazione del moltiplicatore per riduzione di consumi.  Inoltre questa emissione può avvenire senza paracadute,  come ad esempio in Italia dal 1981, e i tassi di interesse saranno stabiliti dal mercato,  oppure con l’obbligo di acquisto da parte della banca centrale dei titoli invenduti al tasso predeterminato dallo Stato.

In quest’ultimo caso  i governi possono comprimere artificialmente gli interessi  e quindi il costo del debito pubblico.   Sarà bene ricordare che il servizio del debito è una componente della spesa pubblica che ne riduce la qualità perché influisce in modo regressivo sulla distribuzione del reddito.   Dal  1981 dunque la spesa per interessi sul debito diviene una componente significativa della spesa,  negli anni più “virtuosi“ ( governi  Prodi )  abbiamo avuto avanzi primari importanti con ovvie ricadute sulla crescita e deficit di bilancio dovuti esclusivamente  alla “cattiva” spesa, quella per interessi. Con l’ingresso nell’euro, così faticosamente guadagnato, la politica monetaria  passa nelle mani  della  Banca  centrale  europea la cui missione consiste nel contenimento dell’inflazione  ( l’ultimo dei problemi  in tempi di immiserimento di massa )  e che non può finanziare gli Stati. 

Naturalmente la severità nell’applicazione delle regole è variabile in base alle convenienze del momento dei paesi forti.  Inoltre i paesi euro dovrebbero ridurre progressivamente il loro debito fino al traguardo del 60% del  P.I.L.  ( grosso modo il debito tedesco ).
Il nostro paese ha dimostrato il suo zelo inserendo il pareggio di bilancio in Costituzione con la riforma, a suo tempo, dell’art.  81 che non ha impedito da anni il ripetersi di quello stucchevole copione della trattativa con l’Europa sul deficit che i governi  e i partiti italiani regolarmente annunciano con toni più o meno bellicosi e che regolarmente si conclude con un compromesso  presentato  come una vittoria.  Dunque il nostro paese essendosi  privato  di due strumenti  fondamentali di politica economica  ( la politica monetaria e la politica di bilancio )  (1)   altro non può che invocare la solidarietà europea ed  elemosinare interventi della  B.C.E.  ?  In verità la B.C.E.  ha violato il suo statuto più volte :  ha finanziato la Grecia nella misura necessaria ad onorare i debiti contratti con banche francesi e  tedesche ed a pagare le forniture tedesche alla sua marina militare.

Inoltre all’approssimarsi  di catastrofi sembra più disposta ad immettere liquidità  come è avvenuto col tanto celebrato quantitative easing   di  Draghi.  Una enorme quantità di miliardi venne offerta al sistema bancario europeo, ad un tasso di interesse praticamente nullo, con la raccomandazione di fornire liquidità alle imprese.  L e banche italiane  ne approfittarono per il loro consolidamento patrimoniale, acquistando titoli di Stato e lucrando sulla differenza dei tassi.  Faccio osservare, en passant,  che il modo più semplice e pulito  per dare soldi alle imprese  sta  nel non prenderli,  rinviando cioè il pagamento di imposte, contributi  etc.  ma così si apre una voragine nel bilancio di cassa dello Stato  e la B.C.E.  non è disposta,  almeno finora,  a riempire di soldi le casse degli Stati  perché contravverrebbe,   anche in questo caso, allo Statuto.   In realtà, almeno finora,  quando la differenza  tra i tassi di interesse sui titoli italiani e tedeschi  sembra crescere eccessivamente  la Banca  interviene con l’acquisto di titoli italiani, lo fa però sul mercato aperto  salvando così  il principio del divieto di finanziamento diretto dei deficit pubblici anche se molti  europei  non nascondono  il loro malumore.    

 (1) sulla rispettiva efficacia  delle due politiche, che in Keynes  sono  preferibilmente associate,  ricordiamo un’accurata ricerca condotta nel lontano  1946 dal principe degli econometrici,  Lawrence  Klein, che così concludeva :  “un aumento di un dollaro della spesa pubblica in deficit  ( con un’offerta di moneta costante )  produce  3,37 dollari di reddito disponibile  in più, un aumento di un dollaro dell’offerta di moneta  ( con un disavanzo costante )  crea  0,19  dollari di reddito  disponibile  aggiuntivo”   Benchè la ricerca  si fondasse su una ricca serie di dati statistici  di un’epoca ormai remota,  il dato è ancora utile per dare un’idea di grandezza  :  l’intervento puramente monetario era  17 volte meno efficace  dell’intervento  puramente  fiscale  e 5 volte meno  efficace dell’intervento  alla Haavelmo!    

Sarà proprio vero che l’avversione  tedesca per gli spendaccioni  dipenda dal fatto che in quella  lingua schuld  significhi colpa e debito?  Cioè da fattori culturali o addirittura etici ? Oppure dal trauma  mai dimenticato  della grande inflazione  che seguì   il primo conflitto mondiale ?
Il  problema è  che  questa situazione  alla  Germania conviene, almeno  guardando a qualche palmo dal naso,  perché  questa  quotazione dell’euro  le  consente  un enorme  surplus  commerciale e  perché esiste un’ampia disponibilità dei  risparmiatori ad acquistare titoli tedeschi a tassi negativi, cioè più bassi del pur modesto tasso di inflazione.
Il debito pubblico tedesco quindi,  in sostanza, non costa.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         Ma  perché  i  fattori che spingono  il sistema del capitalismo moderno  alla crescita del debito , a cronicizzare i deficit dei bilanci pubblici  (2 )  perché cronica è la carenza di domanda e  perché i saggi di profitto nei settori non monopolistici sono annientati  (  che sono tendenze storiche  e non vicende congiunturali ), non dovrebbero operare nel caso tedesco oppure  olandese ? La risposta  è molto semplice e sta nella posizione di queste economie  verso l’estero o, in altri termini, nel loro  gigantesco e strutturale avanzo commerciale e della bilancia dei  pagamenti. Quel  geniale  economista polacco che prima e meglio di Keynes  aveva compreso la dinamica  del capitalismo contemporaneo,   Michal  Kalecki,  chiamava  i deficit  pubblici “ esportazioni  interne “,  un ossimoro che voleva sottolineare l’analoga spinta della domanda  effettiva  esercitata  dalla spesa pubblica in disavanzo da un lato e dall’eccedenza dell’export sull’import dall’altro.   Naturalmente gli  “ esportatori  interni “  sono sempre i capitalisti mentre l’importatore è  lo Stato.  L’analogia però termina qui :  in un caso abbiamo la crescita del debito pubblico  e magari anche una crescita delle importazioni  ( una parte dell’accresciuta domanda si rivolgerà al mercato estero ),  nell’altro caso abbiamo una crescita del credito  ( del patrimonio quindi ) nei confronti degli importatori;  nel primo caso ( deficit ) abbiamo un aumento netto della domanda, dell’occupazione e del reddito, nel secondo caso abbiamo un trasferimento di occupazione e di reddito dal paese importatore al paese esportatore, questo significa che chi esporta merci o servizi  esporta  anche disoccupazione.               

Nella teoria classica avanzi e disavanzi commerciali  ( più esattamente delle bilance dei pagamenti ) non  possono  divenire permanenti   per  via  degli aggiustamenti  valutari,  nel nostro caso  il marco si rivaluterebbe finchè le merci tedesche saranno troppo care  e le merci importate saranno troppo convenienti per i consumatori tedeschi,  riportando in equilibrio la bilancia dei pagamenti. Il marco  però  è defunto  e il valore  dell’euro  è  determinato  dalla forza  e,  insieme,  dalla debolezza competitive    di tutti  i paesi  dell’eurozona.    Non per caso, a suo tempo, i teorici delle aree valutarie omogenee ammonivano  sui rischi di una regione euro così vasta ed eterogenea. Per la verità   la teoria del riaggiustamento   automatico  non funziona,  come dimostra il caso americano  o,  peggio,   inglese, col suo disavanzo della bilancia dei pagamenti  pluridecennale  finanziato  stampando moneta  ed  “esportando” titoli del tesoro.   Da quanto detto discende  il dovere  dei membri  forti  dell’area euro di moderare i loro avanzi commerciali  (ad esempio con aumenti salariali significativi ) e di aumentare la spesa pubblica (magari  in pareggio, in omaggio alle regole). Tra  Stati capitalisti, però, non esistono matrimoni d’amore ma solo di convenienza  e la convenienza  non può  essere equamente distribuita  dato lo sviluppo ineguale,  la gerarchia di potenza  e  la permanente concorrenza  interimperialista. 

( 2 ) negli  U.S.A.  il bilancio  federale  è  in deficit  dal ‘70 salvo gli  anni  clintoniani  1998-2001,  con  punte  del  rapporto  deficit – P.I.L.  del  6%  negli  anni di Reagan   e  del  10%  nel   2008 dopo  la  catastrofe  dei mutui subprime.   Obama  ha  ridotto gradualmente  il  deficit  fino al  3% ,  Trump  lo  ha  riportato  sopra  il  5% ;   il  debito  federale  detenuto  dal  pubblico  ( 34,7%   del  P.I.L.  nel  2000)  tendeva  al  100%  prima  del  coronavirus.   Anche  negli  U.S.A.  il  centro   sembra  più  rigoroso,  ma questo dipende dal fatto che la  destra  al  governo  opera  sempre  grandi  tagli  delle imposte  sui  ricchi  in omaggio  alla  teoria  del  trickle  down :  la  ricchezza accumulata in  cima  alla piramide  sociale   colerà  giù  verso  gli  strati  più  bassi  della  società.    Naturalmente  la  peggiorata distribuzione del reddito  riduce l’effetto espansivo  del  deficit.

Non serve quindi l’appello alla solidarietà ma piuttosto  alla razionalità. In altri termini  una  catastrofe italiana converrebbe  a Germania  e compagnia bella?   E, soprattutto,  all’Italia conviene  la permanenza  nell’euro ? Il fatto che  l’Italia fosse già in crisi quando in Europa arriva l’onda  della crisi finanziaria  2007-2008, che di quella crisi sia stata la principale vittima,  che abbia il debito più  alto dopo  la  Grecia,  dipendono  dall’adesione  all’euro  e  dalle  politiche  europee?   E  se  si,  in quale  misura?  Prima di tentare  di rispondere a questi  interrogativi, ammesso che siamo in grado di farlo,  vorrei  ricordare un dato  sufficientemente stabile:  l’avanzo  commerciale  e, un po’ minore, l’avanzo della bilancia dei pagamenti  che accompagnano  la lunga stagnazione italiana  e il mancato ritorno ai livelli ante crisi 2008, caso quasi unico in Europa.
Benchè  molto meno importante  degli  avanzi tedesco  e  olandese,  i suoi effetti  positivi  devono essere stati  neutralizzati  dagli effetti del  bilancio dello  Stato e poiché in questi anni esso ha sempre registrato un deficit,  la mancata espansione va attribuita alla sua qualità, vale a dire alla qualità delle entrate e, soprattutto,  alla qualità della spesa pubblica ed al costante deterioramento della distribuzione della ricchezza,  causato  dal dilagare del lavoro povero,   della sottoccupazione e della precarietà  (fenomeni intimamente legati).

Anche la precarietà  ( con le parole di Marx  “ l’incertezza dell’esistenza” )  riduce la propensione al consumo, si risparmia su redditi minimi  in vista di un futuro problematico ed un effetto analogo è prodotto su quasi tutta la popolazione dai tagli dello stato sociale. A scanso di equivoci, però,  non intendo  contrapporre  il disastro  delle pubbliche amministrazioni  ad un’economia  privata sana e vitale, rappresentazione cara  a  Confindustria  e a tanti demagoghi  di successo.   La condizione  del  nostro Stato, dell’amministrazione finanziaria, dell’amministrazione della giustizia, degli organi ispettivi, del sistema dei lavori pubblici,  del  sistema dei trasporti, dell’università e della ricerca  etc.  è  un risultato perseguito con successo da una classe dirigente,  i capitalisti in primo luogo,  che ha preferito, che preferisce,  l’evasione fiscale,  l’impunità,  la violazione delle norme di sicurezza,  le aste truccate,  le gare di appalto truccate, i concorsi  truccati,  le carriere pilotate  etc.   ad una amministrazione  pubblica  pulita  ed  efficiente.  Naturalmente le imprese più serie sono  danneggiate e così  anche nel libero mercato  può affermarsi,  in parte,   il grido di guerra  nazionale :  “vinca  il peggiore” !  La competizione  democratica  non fa eccezione :  al  centro non ha  vinto  Moro ma  Andreotti,  a sinistra non ha vinto  Lombardi  ma  Craxi,  non  Berlinguer  ma  Napolitano. 

Certo la corruzione italiana  ha una lunga storia, basti pensare alla corruzione  nell’Italia fascista e alla degenerazione  della sua ipertrofica burocrazia,  si tratta di un fenomeno di lunga durata  che attraversa  indenne  passaggi  epocali della nostra storia  e che tocca apici inarrivabili.  In quale paese d’Europa  politici di primo piano e apparati dello Stato hanno avuto legami organici con  grandi  organizzazioni  criminali ?   Ed anche piccole, per la verità, come la banda della Magliana.  Nell’epoca  in cui  lo Stato è divenuto decisivo come non mai, nella competizione  interimperialista,   il  nostro problema  è divenuto  questione di vita  o di morte del  paese.   L’Europa non ci aiuta, anzi se si guarda alla recente sentenza  Contrada della Corte europea dei diritti umani  o alla posizione assunta sul prestito  F.C.A.  il meno che si possa dire è che non è stata compresa la tragedia della collusione  Stato-mafia  e che l’Unione  incoraggia il dumping  fiscale invece di combattere i paradisi fiscali interni.

Possiamo però affermare che l’Europa sia in qualche modo causa  o concausa del problema italiano ?   Perché  la politica italiana volle a tutti i costi  l’ingresso  nell’euro sostenuta  dalla  grande  maggioranza  dell’opinione  pubblica ?   Se si guarda  oltre la retorica europeista  di quei giorni,  si trova  la sfiducia del paese in se stesso,  il paese  irriformabile  capace solo di svalutazioni competitive, dove era  diffusa la sensazione che l’euro fosse un treno  da non perdere.   In  fondo  il divorzio  della Banca d’Italia  dal Tesoro, voluto  da  Andreatta  con le migliori  intenzioni,  non fu determinato  dalla sfiducia nella politica sperperatrice  che scaricava  sul  bilancio  dello  Stato i costi della  corruzione  e del clientelismo  mentre  l’espansione dello  Stato sociale non veniva  finanziata  adeguatamente  da  una  seria  lotta  all’evasione  e  alle rendite  di posizione ?

Andreatta  proveniva  dalla  D.C.  il  partito  che aveva  inventato  un processo  a cinque gradi di  giudizio,  unico  al mondo :  il  processo  tributario.   La durata  del processo  combinata  coi  ricorrenti  condoni,  produceva  record  mondiali di evasione  nel paese  che,  con la riforma del ’74,  aveva  introdotto  un’aliquota  del  72% sui redditi  più  elevati.   La  toppa  fu  peggiore  del buco :  alla  finanza  allegra  degli  anni  ’80  si  sommò  una esplosione  degli  interessi  passivi,  all’inflazione  galoppante  si fece  fronte  attaccando  l’adeguamento  automatico  dei  salari  e  degli  stipendi.   Da  allora  il  sindacato  cominciò  a  rincorrere, sempre  in  ritardo,  la  perdita  di potere di  acquisto  del  lavoro  e  delle  pensioni.        Ho  voluto  ricordare tutto ciò per  spiegare perché  il  paese  vide  nell’Europa  moderna  ed  efficiente  e  nell’euro  una  soluzione  salvifica.   Ma  l’Unione, costruita  a  misura  delle  banche,   delle  lobbies  di corporazioni  più o meno  potenti,  dei paesi  più  forti,  non può  e  non  vuole  risolvere  il problema  italiano,  perché  altrimenti   tuonerebbe  contro l’evasione,  argomento molto  popolare  tra i nordeuropei  consapevoli  che  in  Italia  esiste  un considerevole  patrimonio  privato  a  fronte  dell’enorme  debito  pubblico e  non  a caso.   Perché  non invoca  una  patrimoniale  con  l’energia  con  cui  ha perseguito  la  (s)vendita  di assets  pubblici  da parte dei  paesi  in difficoltà ?  ( Per  fare  un  solo  esempio :  il gettito  delle  tasse  di  successione  è  venti  volte  inferiore  a  quello  francese.) Nel  momento  in cui  scriviamo,  nel  corso  di  un’epidemia  che  ha  sconvolto  la  vita  economica  e  sociale,  sembrano  lontanissime  le  annose  schermaglie sul punto percentuale di deficit  in  più  o  in  meno,  sugli  0,1%  di  crescita o  di  decrescita,  perché  la  profondità  della  crisi  è  tale  che  la  materia  del  contendere  si  è spostata  sulle  dimensioni  dell’intervento  pubblico,  comunque  senza  precedenti,  e  sulle  modalità.  Ovviamente,  all’interno  dell’eurozona,  se tutti  i  paesi  dovessero  fronteggiare   uti  singuli   la  paurosa  caduta  di  reddito  ed  occupazione,  nonché  il  calo  conseguente  delle  entrate  dello  Stato,  si  avrebbe una  asimmetria  insopportabile  tra  Stati  che  hanno  ampi  margini  di    indebitamento  a  basso  costo  ed  altri  che  rischierebbero  uno  spread  pesante  e  un avvitamento  del  debito.      Sembrano  dunque  tutti d’accordo :   occorre  rifornire  gli  stati  e  le  imprese  di  liquidità  ed  anche  rapidamente.   Ma  sull’entità  ci  si  divide,  500  o  1000  miliardi ?   Ed  anche  sulla  modalità  c’è  dissenso,  erogazione  a  fondo  perduto  o  prestito ?  Nel  secondo  caso  avremo  un  aumento  del  debito  soprattutto  nei  paesi  più  colpiti  dal  virus  che  sono  anche  i  paesi  più deboli,  Italia  e  Spagna  in  primis.  Anche il riparto  darà  luogo ad una faticosa  trattativa.  Già  si  annuncia,  superata  la  crisi,  il  ritorno alle regole  della  sana  finanza,  un  ritorno  ancor  più  doloroso  se  appesantito  da  un  debito  pubblico  ingigantito  dalla  crisi.  Teniamo presente  che  senza  adeguate contromisure  questa  epidemia  può  provocare  conseguenze  economiche  e  sociali  paragonabili  agli  effetti  della  ricetta  imposta  alla  Grecia  dall’Unione  o  delle  ricette  imposte  dal  FMI    ai  paesi  del  terzo  mondo  in  difficoltà.  L’esito  più  probabile  sarà  un  compromesso  del  tipo  metà  prestito, metà fondo perduto. 

Proviamo  a rispondere ora ai nostri interrogativi,  in primo luogo alla questione  legata all’imperialismo tedesco, alla sua vocazione  espansionistica e predatoria,  frustrata tragicamente ben due volte nel secolo scorso.  La catastrofe  italiana  offrirebbe  una ghiotta occasione  di saccheggio dei pezzi pregiati della nostra  economia realizzando  il destino coloniale dell’Italia fascista.  ( La sconfitta  tedesca  fece si che il paese divenisse una colonia americana  poi  con  Mattei  e lo sviluppo delle  partecipazioni  statali abbiamo raggiunto una relativa indipendenza economica).  Ricordiamo, però,  che da anni  è  in corso una strisciante “colonizzazione”  in forma di acquisizioni  estere  dei pezzi più interessanti  della  nostra  economia.
Date le dimensioni del paese, inoltre,   un crollo avrebbe conseguenze sistemiche per l’intero edificio europeo.  Lasciar fallire l’Italia  è  un  azzardo  dalle  conseguenze imprevedibili  ed  è probabile  che i poteri forti  in  Germania  siano divisi  e allarmati da  questa  prospettiva. 

Al  terzo e al quarto interrogativo,  relativi  al rapporto tra l’euro, l’Unione europa  e  la  crisi  italiana,  penso si possa  dare una risposta  netta :  la  decadenza  del  paese  è  essenzialmente  determinata  da  cause  endogene, profondamente  radicate  nella  nostra storia,  l’ultima  interferenza  decisiva  nella  politica  italiana  non  provenne  dall’Europa  ma dagli  Stati  Uniti  di  Kissinger  ( l’eliminazione  di  Moro ).
Le  pastoie  rigoriste  dell’Unione  potevano  e  possono  essere  superate  nel  rispetto  del  dogma  assurdo  del  pareggio  di  bilancio    con  un’imponente  ( e  intelligente )  incremento  delle  entrate  tributarie  e  con  la riqualificazione  della  spesa  pubblica.   L’Europa non  sarebbe  un  ostacolo  insormontabile.

D’altra  parte  ( e vengo al secondo interrogativo ) nella  prospettiva  dell’uscita  dall’euro  sarebbe  ancor  più  necessaria  quella  stessa politica  economica  ( alla  Haavelmo )  che  però  richiede  la  ricostruzione  dello  Stato  in  tutte le  sue  articolazioni  e, per le dimensioni e la profondità  del  problema, richiede  la gramsciana  riforma  intellettuale  e  morale.  Non  è   casuale   che  i cosiddetti  sovranisti,  nel  momento di  massima  impopolarità  dell’Europa e  del  suo  paese guida,  tacciano  sul  punto  della  fuoruscita dall’euro.   Se  non fosse  soltanto  un  motivo  di  propaganda  ne avrebbero condotto  in  questi  anni  una  preparazione  scientifica  :  una  ricerca  sull’elasticità  dell’export  e  dell’import  in  funzione di  una previsione plausibile della  svalutazione  di  una  moneta  nazionale,  un  piano di controllo del  movimento  dei  capitali  etc. 

La  loro  missione  consiste  nel  deviare la  rabbia  popolare  dal  sistema  del capitale  al  nemico  di  turno : l’altroieri  gli  usurai  ebrei, ieri  i  lavoratori  immigrati,  oggi  gli  untori  cinesi.   E’  un  fatto,  però,  che  nessuno  in  Italia,  che si  sappia,  ha  proceduto  alla  necessaria preparazione.

Per  parte  mia  insisto:  la  riforma  dello  Stato  dovrebbe  precedere  la  riconquista  della  sovranità  monetaria,  la  riforma  dello  Stato  richiede la  riforma  intellettuale  e  morale  della società.    Abbiamo  visto  la  mitica  società  civile  al  governo  di  città  e  del  paese,  che  si  esprima  direttamente  o  tramite  i partiti  cambia  poco,  la  società  civile  non  è  la  soluzione  ma  il  problema. 

A  guidare  la  riforma  è  necessario, però,  il  moderno  principe, intellettuale  collettivo  e  soggetto rivoluzionario.  Sono  certo  che   Cumpanis   porterà  il  suo  contributo    alla  sua  difficile,  indispensabile,  ricostruzione.