- Oltre il linguaggio della crisi
Viviamo in un’epoca di crisi. Ma la crisi è diventata un luogo comune. La crisi è ovunque. La crisi è
economica. La crisi è ecologica. La crisi era la pandemia e la crisi oggi è la guerra. La crisi è
ovunque perché la crisi è la normalità, la crisi è inscritta nel meccanismo stesso di accumulazione
capitalistica. È il modo di produzione capitalistico che produce la crisi. Lo abbiamo sempre saputo
eppure sempre ci sorprende.
Perché l’essenza della crisi sta nella trasformazione radicale cui ci obbliga il modo di produzione in
cui viviamo. Una trasformazione incessante che movimenta le nostre vite, le cambia prima
lentamente, poi repentinamente, mettendo sempre in discussione ogni sicurezza. Solo la sicurezza
del profitto resta immobile a guidare la nostra danza collettiva sull’orlo del vulcano.
La ragione per cui il modo di produzione capitalistico produce la crisi, scriveva Marx, è che, da un
lato, esso incorpora una contraddizione tra capitale e lavoro, tra la razionalizzazione economica, la
crescente efficienza produttiva e lo sfruttamento sempre più completo delle risorse umane e
naturali, cioè di individui, società e specie che non nascono per essere forza-lavoro e materia prima
al servizio del profitto ma la cui autonomia e indipendenza si perde mano a mano che il potere
politico del capitale ve le costringe, adattandole ai propri fini. Dall’altro lato, esso produce un
costante progresso nel senso di uno sviluppo tecnologico e scientifico oggettivo, benché questo
processo sia distorto dalla prima contraddizione e produca così non una maggiore emancipazione
dell’umanità dai limiti ereditati dalla tradizione e dalla natura, bensì finisca per diventare strumento
di asservimento delle classi lavoratrici e delle altre specie.
Occorre recuperare il linguaggio di Marx ed Engels quando parlavano di “contraddizione”. Anni di
anti-hegelismo postmoderno in cui si è tentato di “decostruire” questo linguaggio, di offrire “altri”
punti di vista, “diverse” interpretazioni hanno solo impedito alla classe lavoratrice di comprendere
che la sua lotta politica per l’emancipazione si gioca nel meccanismo produttivo, là dove non ci
sono soluzioni di compromesso ma l’antitesi è spietata e totale: o l’attività del lavoro è auto-
determinata dalla classe e così il fine e i modi della produzione stessa, oppure non lo è, il lavoro è
eterodiretto, il suo risultato è profitto per pochi e miseria e impotenza politica per molti. Questa
contraddizione non è aggirabile e va sciolta con la lotta politica che sovverte la proprietà dei mezzi
di produzione.
E si tratta di una contraddizione, non solo di un generico “scontro” di forze, perché ognuna delle
due parti in campo ha un progetto di razionalità diverso, un’idea di società diversa e un’idea di
rapporto con la natura diversa. Ci sono due logiche in conflitto e non c’è mediazione possibile: se
non si è liberi collettivamente di organizzare il lavoro e godere dei frutti della Terra in un ambiente
preservato dalla distruzione e dallo sfruttamento, si è automaticamente servi, ci si immiserisce e ci
si azzuffa in uno scenario apocalittico in cui montagne di detriti salgono al cielo come nell’Angelus
novus di Benjamin.
Quando questo problema politico viene dimenticato tutti gli altri problemi vengono distorti di
conseguenza. Perché il capitalismo influenza di fatto tutti i rapporti sociali, familiari, psicologici, la
cultura, le tradizioni. Niente è escluso dal suo dominio, tutto si trasforma secondo la sua legge
interna. Se dimentichiamo il problema politico nella sfera produttiva – la necessità di
autodeterminazione della classe operaia – tendiamo a credere che la causa dei problemi sia altro: la
“tecnologia”, ad es., il cui sviluppo accompagna il capitalismo come un’ombra ma che è un effetto e
non una causa. Oppure magari pensiamo che la tecnologia sia un problema solo perché il suo
sviluppo è legato al “profitto” ma, di nuovo, non capiamo veramente cosa sia il profitto e da dove
provenga, pensiamo che dipenda dalla cupidigia e non da leggi economiche scientificamente
determinabili, dalla contraddizione capitale/lavoro.
Se però non riusciamo ad articolare il rapporto tra ciò che accade al lavoro e ciò che accade nel
resto della società finiamo per credere che esistano altri conflitti e scambiarli per conflitti essenziali:
come quello tra diritti civili e diritti sociali, tra sviluppo industriale e natura, tra mondo digitale e
vita “reale”, tra il potere della società nel suo complesso e la libertà individuale ecc. Questi conflitti
sono secondari, la loro causa sta altrove e rimane oscura a chi si fa illudere da essi.
- Recuperare il materialismo “dialettico” e il socialismo “scientifico”
Ciò spiega l’attuale involuzione politica a destra, il pericoloso scivolamento verso posizioni
irrazionalistiche, populiste, complottiste e negazioniste. Di fronte ad esse, il compito
dell’ecosocialismo è duplice: opporsi al progetto della razionalità tecnocratica del capitale senza
cedere alle derive tecnofobiche, alle utopie idilliche, a forme romantiche di opposizione al potere
che hanno mostrato all’epoca del covid pericolose convergenze con la destra più reazionaria.
Certo oggi, a oltre trent’anni dal crollo del socialismo reale, evocare espressioni come “socialismo
scientifico” o “materialismo dialettico” suona arcaico e superato ma è evidente che ciò che nel
frattempo è andato perduto andrebbe recuperato strategicamente: un’idea di socialismo che fa della
scienza e del materialismo un modo diverso di conoscere e trasformare la realtà, un modo in cui alla
solidarietà tra gli umani corrisponde un senso di appartenenza alla natura non-umana che evita però
ogni misticismo, ogni regressione fascistoide e new age.
John Bellamy Foster ha spiegato bene attraverso il concetto di “frattura metabolica” l’interesse di
Marx per uno sviluppo non distruttivo del rapporto tra società umana e ambiente, così come il tardo
Engels riconobbe nella “vendetta” della natura nei confronti dei tentativi umani di dominarla la
conseguenza di una concezione spiritualistica e patriarcale che il socialismo deve abbandonare: la
natura si vendica di noi perché pretendiamo di dominarla dall’esterno, come padroni, con un
atteggiamento idealistico e sprezzante. Il materialismo ha una visione più umile e unitaria del
vivente.
Ci sono tracce di una visione panteistica e vitalistica, perfino della Naturphilosophie romantica in
questo materialismo ma il motivo è evidente. Occorreva evitare ogni interpretazione meccanicistica
della natura e della società, ogni visione che rende impossibile un progetto di libera emancipazione:
in un mondo dominato da leggi fisico-chimico-biologiche, infatti, non c’è spazio per un soggetto
autocosciente che si ponga liberamente dei fini. Ogni finalità, ogni suo movimento viene
dall’esterno. Non solo, non ha neanche senso interrogarsi su cosa si “debba” fare in senso morale o
politico perché ogni azione è determinata da cieche leggi naturali, siamo solo automi che
rispondono a stimoli. Ma questa visione esprime esattamente la concezione del lavoratore come
automa, appendice della macchina, un robot privo di agency propria (d’altronde la parola “robot”,
come noto, deriva dalla parola ceca robota che sta per “lavoro forzato”).
Quando Engels e Lenin parlano della natura come “materia in movimento” vi includono la società
umana come un organismo attraversato da conflitti ma in grado di autodeterminarsi politicamente.
L’auto-movimento della materia significa qui che la classe lavoratrice può – comprendendosi come
“classe”, unendosi e dirigendo la propria azione verso la distruzione di ciò che la ingabbia –
costituirsi anche materialmente come classe, diventare soggetto della propria azione e liberare,
liberando sé stessa, tutta la società dal giogo del capitale. La classe operaia ha il fine paradossale,
dialettico, ma evidente di costituirsi come classe per dissolversi come classe. Ecco perché la identity
politics liberale non comprende le dinamiche di classe: la classe non è un’identità, è un processo di
auto-dissolvimento.
- La scienza come strumento rivoluzionario, la rivoluzione come processo “scientifico”
In questo la scienza è uno strumento formidabile perché ci permette di comprendere gli effetti
distruttivi dell’attuale sistema economico e perfino gli obiettivi minimi per evitare la catastrofe. Ma
come in ogni cosa la scienza non può dirci anche come arrivare a quegli obiettivi, né come
formulare politicamente obiettivi che trascendono lo stato di cose presenti. Il “fine” dell’azione è
sempre costruito da un soggetto politico che si autodetermina ed è capace di scegliere in che
direzione muoversi: e sul modo in cui questo soggetto deve determinarsi, quali condizionamenti può
accettare e quali ritiene di dover necessariamente superare solo la scienza politica o la politica come
scienza può dare una risposta.
C’è un fattore di attività cosciente, di auto-organizzazione che non può essere cancellato da questo
scenario. Finché le masse saranno oggetto delle decisioni politiche i fini dell’ecologismo non
potranno che essere riformisti, nella migliore delle ipotesi, o mero greenwashing che non scalfisce
gli interessi e il potere delle classi dominanti sulla forza-lavoro. Solo una ricomposizione di classe
che abbia presente la necessità di porre dei fini che trascendono lo status quo può dare
all’ecologismo la spinta necessaria per cambiare le condizioni in cui agiamo e che limitano oggi il
nostro potere decisionale.
La scienza in questo è una grande alleata di una visione materialistica della storia e della natura ma,
al tempo stesso, non può sostituirsi alla necessità politica di organizzare in maniera cosciente la
lotta per l’emancipazione dell’umanità dai limiti posti alla sua autodeterminazione come “umanità”
tanto dalla tradizione, quanto dal capitale. Come si diventa “umanità”? Come si diventa una società
globale orizzontale e solidale? Questo la scienza può insegnarcelo ma essa stessa imparerà dalla
lotta politica quanto in là possono spingersi le potenzialità dell’umanità che non risiedono nella
nostra natura o nella nostra cultura, nella biologia o nella tradizione, bensì nelle nostre relazioni
reciproche, in ciò che esse creativamente producono di nuovo.
Ma la scienza è necessaria anche per pensare di nuovo e in forma sempre più aggiornata la
continuità tra la specie umana e le altre specie sul pianeta. Anche in questo senso è parte
fondamentale di una concezione materialistica e rivoluzionaria della vita. Oggi il nostro sguardo è
limitato dalle condizioni attuali di esistenza: la scienza stessa non può spingersi fino a rompere
politicamente con l’attuale concezione della natura non umana. Ancora l’etologia fatica a liberarsi
dal paradigma meccanicista, ad emanciparsi da una visione reificata dell’animale. L’attuale scienza
biologica se è necessaria per combattere l’antropomorfismo e ogni illusione mistica e ingenua di
“fusione” con la natura, dall’altro è funzionale agli interessi del capitale e impedisce che tra umano
e non-umano si stabilisca una relazione diversa.
Occorre riformulare i nostri obiettivi politici pensandoli come forme della relazione. Ma, questo il
punto decisivo, la relazione non va intesa in senso soggettivo, come atteggiamento individuale, non
si tratta di costruire piccole realtà o addirittura stili di vita individuali “rispettosi” dell’altro. Non
che questo non si possa o si debba fare, che il veganismo o le forme di consumo solidali ed
ecologiste non siano strade da incoraggiare, come anticipazione di un futuro possibile, come
tentativo di mostrare che le forze e le energie che si spingono oltre il conformismo che cementifica
il presente esistono fin da ora. In Sudamerica, ad es., è stato elaborato il modello del “veganismo
popular” che intende contrapporsi al modello consumistico occidentale e borghese. Si tratta però
sempre di trappole e illusioni idealistiche se non vengono controbilanciate dalla ferma convinzione
che solo a partire da un rovesciamento dei rapporti di produzione possa scaturire un modo nuovo
di vivere e, dunque, di relazionarsi alla natura. Questa rivoluzione politica è alla base di un
riorientamento della base produttiva che renderebbe possibili nuove forme collettive della relazione.
Le relazioni, tra umani e tra umani e animali, non sono ciò di cui è fatta la società ma l’effetto della
struttura profonda della società stessa: agire in senso politico significa non solo rimuovere i limiti
dell’agire individuale – nel senso della “libertà negativa” liberale, libertà dalla costrizione dello
Stato – ma anche costruire le strutture nuove in cui l’agire individuale viene amplificato nelle sue
potenzialità – la “libertà positiva” democratica e socialista, libertà dai limiti imposti dalle
disuguaglianze economiche.
Il materialismo è proprio questo, come osserva Marx nelle Tesi su Feuerbach: non la mera
contemplazione dell’essere ma l’attività pratica di interazione e trasformazione della realtà. La
coscienza dell’umanità è condizionata dallo spiritualismo patriarcale ma anche da una visione
parziale e limitata della natura non-umana, in particolar modo dell’animale, verso cui non riusciamo
a relazionarci in modo libero perché siamo condizionati dall’interesse pratico al suo controllo,
dominio e sfruttamento. Riscoprire una visione materialistica del vivente significa pensare e
praticare in modo dialettico il confine tra umano e non-umano.
Siamo animali e solo riconoscendo questo fatto possiamo riscoprire quella continuità, ricomporre la
frattura metabolica con una natura che non è “altro” da noi e verso cui non siamo né padroni, né
alieni. Ma la nostra animalità si esprime anzitutto nel modo in cui siamo capaci di organizzare la
nostra società e dirigerla attraverso la scienza, in una comunità fondata su principi di uguaglianza e
solidarietà. Il grado con cui riusciremo a realizzare questo essere-in-comune è dato dal livello di
universalità che sapremo realizzare: universalità che coinvolge e trascende tutti i privilegi interni
che la società ha ereditato dal suo passato premoderno e capitalistico. Non esiste opposizione tra
diritti sociali e civili: questi ultimi si realizzano tanto più quanto più la società stessa è organizzata
materialmente come società solidale.
Eppure è chiaro che il limite estremo di questa universalità si tocca nel nostro rapporto col non-
umano: fino a che punto siamo in grado di accogliere anche la natura non-umana nel nostro progetto
collettivo di emancipazione dallo sfruttamento? Fino a che punto l’animale umano può diventare
effettivamente un animale universalistico? Un animale che può sempre di più, che può fare
potenzialmente tutto, ma che non per questo fa tutto, non per questo spadroneggia, distrugge e
manipola. Un animale, invece, che può accogliere nel suo progetto emancipativo ogni alterità, farla
convivere, farla fiorire insieme alla propria libertà. Universale non come assorbimento del
particolare ma come suo inveramento, come sua salvezza.
L’umanità che si costituisce per la prima volta come umanità nel socialismo, come dice Engels, si
troverà di fronte un problema etico-politico enorme: fare in modo che quella relazione con l’altro in
tutte le sue forme diventi una relazione quanto più possibile paritaria, solidale e rispettosa. Perché
proprio quando si costituisce come “umanità” attraverso una scienza e una prassi finalmente libere,
scopriremo davvero quanto il confine della nostra umanità è poroso e labile. E che un processo
parallelo a quello dell’estinzione dello Stato e all’auto-soppressione della classe sarà l’estinzione
dell’umanità come soggetto sovrano e tiranno del resto del vivente.